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Per parlare di città e di territorio usiamo, spesso a sproposito, termini generici o denominazioni desuete (città, campagna, centro, periferia), oppure ci lasciamo affascinare da parole d'ordine (i «non luoghi») che comprendiamo poco ma che danno illusori tocchi di contemporaneità ai nostri discorsi. Critichiamo la città del Novecento, ma non conosciamo i nomi di chi l'ha sognata, progettata, costruita. Discutiamo di marginalità e di sicurezza per sentito dire, raramente in presa diretta. Viviamo le trasformazioni da dilettanti, con categorie critiche vecchie di un secolo. Abitiamo le nuove metropoli italiane, delle quali neppure ammettiamo l'esistenza, come dei principianti, pieni di nostalgia per un passato che non abbiamo mai conosciuto davvero. Di questo e di molto altro Gianni Biondillo parla nel suo libro. Lo fa, innanzitutto, da architetto quale è, come tecnico attento alle dinamiche urbane. Ma soprattutto lo fa da scrittore, fuori da tecnicismi e accademismi, cercando di raccontare a tutti quanto il nostro paesaggio sia radicalmente mutato. E quanto vicine (ma anche distanti) siano le due discipline che da sempre lo affascinano: l'architettura e la letteratura.